"LA VITA E' COME UNA SCATOLA DI CIOCCOLATINI: NON SAI MAI COSA TI CAPITA"
Questa è una delle frasi più belle e più espressive del film Forrest Gump. Questo film è ispirato all'omonimo romanzo di Winston Groom del 1986, Forrest Gump tratta dell'intensa vita di un uomo dotato di uno sviluppo cognitivo inferiore alla norma. Forrest Gump è un personaggio border line non tanto per il suo quoziente intellettivo, al di sotto della norma, quanto per il suo rapporto ingenuo e fiducioso con un mondo che sin da bambino fa di tutto per relegarlo nell'ambito del diverso. Persino sua madre, che lo incita a non farsi scavalcare da nessuno, lo costringe a mettere un apparecchio alle gambe che lo penalizza ulteriormente. Solo in seguito all’aggressione da parte di un gruppo di bulli, Forrest capisce di aver delle doti fisiche straordinarie, infatti, grazie alla sua abilità nel correre e nel football, Forrest viene ammesso al college con una borsa di studio.
Quest’uomo viene considerato un “idiota”, per la maggior parte delle persone, e un “genio” solo per pochi. Secondo il mio punto di vista, il messaggio finale del film si sofferma su come non sia importante essere intelligenti, ma basta agire nel bene, poiché anche il quoziente intellettivo più elevato di tutti può mancare di qualcosa. Questo film ebbe un enorme impatto sulla cultura popolare.
Secondo il mio punto di vista, in questo film sono trattati sia il tema della disabilità e sia quello della diversità.
Ma cosa intendiamo quando parliamo di disabilità e di diversità?
La disabilità è un termine che è stato introdotto dall’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) nel 1980 la quale mise appunto una classificazione internazionale: ICIDH che si basa su tre fattori:
1. menomazione (perdita a carico di una struttura psicologica, fisiologica o anatomica);
2. disabilità;
3. handicap (è la difficoltà che la persona con disabilità incontra nel confronto con gli altri, è il disagio sociale conseguente a menomazione o disabilità che limita l’adempimento di un ruolo all’interno della società).
La disabilità è la limitazione o perdita, conseguente a menomazione, della capacità di compiere un’attività nel modo considerato normale per l’essere umano.
La disabilità comporta la diversità, ma la diversità non è necessariamente la disabilità.
Tutti sono diversi; non tutti sono disabili.
La diversità è ciò che per la società non rientra nei canoni della normalità. Il diverso non è solo il disabile, ma è anche lo straniero, il genio, una persona con cultura, lingua, abitudini, razza differenti. Il diverso è etichettato così dalla società, incute timore, paura per questo è isolato perchè distante da quello che siamo noi.
Nel film sopra citato si parla di disabilità, poiché il protagonista ha un deficit cognitivo, ma emerge anche il tema della diversità poiché Forrest, essendo una persona disabile, è stato soggetto a bullismo. Dalla trama del film si evince come un soggetto con disabilità possa sviluppare altre abilità. Forrest, per me, è un diversamente abile. La diversabilità evidenzia come una persona soggetta a disabilità possa sviluppare delle abilità che devono essere scoperte e potenziate. Questo termine va a sostituire il termine disabilità, siccome ogni persona disabile tende a potenziare un’abilità specifica che lo differenzia dagli altri, che nel caso di Forrest si tratta dell’abilità nel correre.
In questi giorni, per sostenere l’esame della didattica aggiuntiva Sociologia della disabilità e della marginalità, sto leggendo dei libri sulla diversità: “Discriminazione negativa”, “Propedeutica a una sociologia della disabilità e della marginalità” e “Beni confiscati e inclusione sociale”. Sono dei testi molto belli in quanto si soffermano su temi che sono all’ordine del giorno, infatti, nei primi due libri si parla della disabilità e di come questa sia legata al concetto di marginalità, in quanto chi è ritenuto diverso, disabile è allo stesso tempo anche emarginato dalla società, in tal modo quest’ultima rilega queste persone ai margini delle città, facendo così emergere la differenza tra il centro e la periferia, riportando l’esempio delle banlieu francesi, che sono zone periferiche della città in cui si possono trovare maggiormente persone immigrate; l’ultimo libro citato sembra non interessante, ma in realtà anche questo si sofferma su argomenti importanti soprattutto il primo capitolo, dove io voglio focalizzare la mia attenzione, “Spazi nell’inclusione”. Già dal titolo si evince che il sunto di questo capitolo è l’inclusione di tutte quelle persone “diverse” all’interno di quegli spazi dove tutti possono convivere senza nessuna distinzione. Uno dei temi è lo straniero, come esso è ritenuto diverso perché lontano da ciò che siamo noi. Lo straniero si ritrova a vivere in un’altra città, culturalmente omogenea, si pone come soggetto che mantiene contemporaneamente un’appartenenza al gruppo e una diversità dal gruppo stesso che lo tende ad escludere dalla società in cui vive.
Ma quello che mi ha colpito di più sono alcuni passi tratti dal libro “L’Harem e l’Occidente” della scrittrice Fatima Mernissi sul tema del corpo femminile, che poi ho anche ritrovato nel libro Nozioni introduttive di pedagogia della disabilità. In un passo lei racconta la sua esperienza in un negozio di abbigliamento all’interno del quale le taglie arrivavano fino alla 42. Fu in quell’occasione che la Mernissi si rese conto come l’immagine di bellezza dell’Occidente possa ferire fisicamente una donna, mortificandola tanto quanto il velo imposto dai regimi estremisti in Iran e Arabia Saudita. Inoltre, sostiene che noi occidentali siamo vittime delle taglie 42, quelle perfette per eccellenza, e le donne finiscono con il sentirsi umiliate se non riescono a rientrare in questi standard imposti dalla cultura.
Questo testo si focalizza anche sul tema della divisione sociale tra uomo e donna, sostenendo che il soggetto femminile è in condizione di dipendenza economica e relazionale dal soggetto maschile.
E’ su questo tema che si introduce un altro passo della Mernissi: “L’uomo dell’occidente dichiara che la bellezza, per una donna, è dimostrare quattordici anni, condannando la donna matura all’invisibilità. Le donne devono apparire belle, ovvero infantili e senza cervello. Gli occidentali costringono la donna a percepire l’età come una svalutazione della loro persona.” Siamo tutte uguali che tendiamo a stigmatizzarci per essere ben accettate all’interno di una società che ormai pone attenzione e si sofferma solo sull’aspetto estetico sorvolando che la bellezza reale non è ciò che appare al di fuori, ma ciò che abbiamo dentro.
Quindi siamo noi donne occidentali che tendiamo ad omologarci alla massa seguendo lo stesso modello che viene offerto dai mass media. Prima su tutti è la televisione che influisce sul nostro modo di essere e di pensare attraverso la presentazione di stili di vita che influenzano i ragazzi con la necessità di conformarsi a propri simili.
I mass media facilitano la diffusione di messaggi ambigui intorno a temi delicati che meritano attenzione, un esempio di tema importante è l’alimentazione corretta.
Rosa Braidotti, durante un corso di Women’s Studies Eros and Pathos, presenta il food da diverse prospettive:
- il cibo come gioia;
- come piacere;
- come pathos
- come disordine alimentare che determina problemi con il proprio corpo come l’anoressia e bulimia.
Per la Braidotti la rovina contemporanea è percepita proprio nel cibo visto come consumo. Il problema che lei riscontra è che alla fine nel mondo si muore per la stessa malattia: la fame, sia per mancanza e sia per eccesso.
Su questo tema del cibo, ma soprattutto dell’alimentazione, i mezzi di comunicazione diffondono un doppio messaggio:
- la volontà di rimediare alle cattive abitudini alimentari;
- favorire una campagna pubblicitaria che incoraggia patologie come anoressia, bulimia, ciò attraverso la visione di icone di bellezza.
Questi mezzi di comunicazione giocano un ruolo importante sui problemi legati all’immagine corporea negativa. Le modelle che compaiono sui giornali forniscono dei modelli estetici, delle icone spesso irrealizzabili.
Per le donne il principale obiettivo è la bellezza, la loro immagine è fondamentale per raggiungere il successo e il benessere, per la maggior parte di esse il grasso dimostra la debolezza, questo perché la pubblicità e la televisione diffondono l’idea che un corpo femminile è bello soltanto quando è magro.
La magrezza non è solo bellezza, ma è deforme poiché le modelle anoressiche rappresentano un prototipo di bello che diventa mostruoso.
Un esempio è la modella anoressica Kate Moss, è l’emblema della mancanza di carne, di un corpo senza le forme del corpo femminile, è un corpo deformato rispetto ai canoni estetici della femminilità classica e lontano dal canone della maternità.
Negli ultimi anni l’anoressia è diventata una tendenza diffusa nella moda, infatti, ragazze che vogliono entrare in questo mondo tendono a dimagrire per il semplice motivo che durante le selezioni o nei concorsi viene detto “Troppo grassa per fare la modella!”. Si entra in un tunnel che spesso è senza via di uscita, questo è successo per un’altra modella anoressica Isabelle Caro che alcuni mesi fa ha perso la sua battaglia contro l’anoressia. E’ stata la modella che nel 2007 si è posta come protagonista della campagna pubblicitaria che Oliviero Toscani firmò per Nolita, per diffondere un messaggio forte e polemico contro l’anoressia. Questa campagna ha provocato subito la reazione della stampa, ma anche della società poiché su quasi tutti i cartelloni pubblicitari si poteva osservare la foto che la ritraeva nuda. Mi dispiace moltissimo che alla fine nonostante tutto l’impegno e la forza abbia perso la sua lotta contro l’anoressia, una malattia potente e terrificante che ci divora da dentro e dalla quale è davvero difficile uscirne.
Durante il corso abbiamo analizzato dei quadri, uno su tutti mi ha colpito particolarmente poiché ho associato questo dipinto alla modella Isabelle Caro, si tratta del ritratto della ballerina di Anita Berder di Otto Dix. E’ un quadro che mi ha suscitato tristezza, ma anche inquietudine, soprattutto nel vedere il volto bianco (sul quale è possibile notare i segni della malattia) circondato dal rosso acceso dello sfondo e dell’abito che fa risaltare ancor di più la sua magrezza.
Quindi anche nell’arte, oltre la bellezza, compare il brutto e la mostruosità (considerato l’opposto della bellezza). L’arte moderna produceva opere in cui dominava la deformazione delle figure, il brutto era diventato la vera bellezza, perché il bello non produceva più nessuna emozione estetica, esempio di artista che non ritraeva figure dalla fisicità classica è Fernando Botero.
Quindi l’immagine della donna che viene fuori dai mezzi di comunicazione (televisione, riviste, ma anche quadri) è modificata, deforme. Questo è possibile notarlo anche in letteratura soprattutto per quanto riguarda il corpo nudo non solo oggetto di fruizione estetica, ma un corpo che dice la verità che spesso è legata alla morale. Un esempio di autore è Pier Paolo Pisolini che riflette molto sulla fisicità proponendo un corpo grottesco ma bello.
Per concludere voglio citare una frase di Seneca tratta dal libro che secondo me riassume ciò che è stato detto finora:
Nessuno che sia schiavo del corpo è libero
P.S. in vista della chiusura del forum e di conseguenza la fine del corso, ho voluto condividere con gli altri la mia ultima riflessione. Vorrei ringraziare la prof per questa opportunità, ma anche gli altri colleghi, è stata un'esperienza bellissima